IL TRIBUNALE
   Decidendo sull'atto di appello ex art. 310 c.p.p., presentato il 18
 dicembre  1997 dal pubblico ministero presso il tribunale di Brindisi
 avverso  l'ordinanza  del  9  dicembre  1997  con  cui   il   giudice
 dell'udienza  preliminare presso quel tribunale ha disposto la revoca
 della misura della custodia  cautelare  in  carcere  alla  quale  era
 sottoposto Tedesco Nicola, nato a Brindisi il 19 giugno 1963;
   Esaminati  gli  atti  del  procedimento,  trasmessi  dall'autorita'
 giudiziaria procedente e qui pervenuti il 27 dicembre 1997;
   Sentite le parti  nell'odierna  udienza  in  camera  di  consiglio,
 osserva quanto segue.
   Il  Tedesco  e'  stato sottoposto una prima volta alla misura della
 custodia cautelare in carcere in esecuzione dell'ordinanza emessa  il
 15  aprile  1997  dal  g.i.p.  presso  il  tribunale  di Brindisi nel
 procedimento n. 2844/96 r.g.n.r. nel  quale  era  indagato  per  aver
 partecipato   ad   un'associazione   per  delinquere  finalizzata  al
 contrabbando di tabacchi lavorati esteri provvedendo a riciclare  gli
 illeciti  capitali  prodotti  dal  contrabbando  depositandoli presso
 banche  con  richiesta di emissione e/o di rimborso di certificati di
 deposito al portatore e/o di libretti di deposito e/o  di  titoli  di
 Stato   (capo   d'imputazione   BC),  nonche'  per  un  tentativo  di
 riciclaggio di quel danaro concretizzatosi nel formulare richieste di
 emissione di certificati di deposito presso la filiale di Brindisi di
 un istituto di credito (capo BD).
   Successivamente, in esecuzione di una seconda ordinanza emessa  dal
 medesimo g.i.p. il 28 giugno 1997 nel procedimento n.2844/96 r.g.n.r.
 (ma sulla base degli atti di indagine in gran parte eseguiti in altro
 procedimento,  recante  il n. 1093/97 r.g.n.r.) e' stata disposta nei
 confronti  del  Tedesco  l'applicazione  della  stessa  misura  della
 custodia  cautelare  in  carcere  in  relazione  ai  reati  di cui il
 riciclaggio di danaro proveniente  dai  delitti  di  contrabbando  di
 tabacchi  lavorati  esteri  e  di  estorsione  aggravata, mediante il
 compimento di una serie di operazioni bancarie  (capi  A,  B)  ovvero
 mediante l'acquisto di due motobarche (capo C).
   Con  provvedimento emesso il 9 dicembre 1997 nel corso dell'udienza
 preliminare il giudice, sostenendo l'esistenza di una connessione  ex
 art.12,  lett. b), c.p.p., tra i reati contestati con le due distinte
 ordinanze,  ha  ritenuto  la  configurabilita'  di  una  ipotesi   di
 "contestazione  a  catena" ai sensi dell'art. 297, comma 3, c.p.p. e,
 di conseguenza, ha ordinato l'immediata scarcerazione degli sindacato
 stabilendo che il termine di custodia per i fatti contestati  con  la
 seconda  ordinanza  era di corso dalla data di esecuzione della prima
 (29 aprile 1997) e, quindi, era scaduto il 29 ottobre 1997  (data  in
 cui la misura disposta per i primi fatti aveva perso efficacia).
   Avverso  tale  decisione  ha  proposto appello il p.m. chiedendo il
 ripristino della misura  cautelare,  sostenendo  che  tra  i  delitti
 oggetto di due provvedimenti coercitivi non vi sarebbe alcun nesso di
 continuazione  e,  comunque,  che  la seconda ordinanza del 28 giugno
 1997 riguarderebbe  i  fatti  accertati  dagli  inquirenti  in  epoca
 successiva  all'emissione  della  prima ordinanza del 15 aprile 1997:
 quindi  non  erano  desumibili   dagli   atti   acquisiti   all'epoca
 dell'adozione di questa iniziale decisione cautelare.
   Sulla  base  di  una cognizione degli atti trasmessi che, in questa
 sede, non  puo'  che  essere  necessariamente  sommaria,  ritiene  il
 tribunale  che  esiste  una connessione ex art. 12, lett. b), c.p.p.,
 tra i delitti contestati al Tedesco con la prima ordinanza  e  quelli
 riportati  nella  seconda  ordinanza.  E'  evidente, infatti, come la
 parziale identita' degli autori delle operazioni di  riciclaggio  del
 denaro,  la provenienza di tale denaro, per la gran parte costituente
 il profitto dell'indicata attivita' di contrabbando,  ma  soprattutto
 le  modalita',  sostanzialmente  sempre  analoghe,  di  compimento di
 quelle  operazioni  -  concretizzatesi  in  una  serie  di  atti   di
 investimento,   sostituzione   e  trasferimento  di  danaro  tesi  ad
 ostacolare  eventuali   accertamenti   sulla   relativa   provenienza
 delittuosa  -  rappresentano  circostanze che inducono fondatamente a
 ritenere  che  tali  reati  furono  tutti  commessi  dal  Tedesco  in
 esecuzione  di  un  medesimo  disegno  criminoso.  Programma unitario
 avente come fine quello di riciclare gli illeciti  capitali  prodotti
 principalmente  dalla  lucrosa attivita' di contrabbando, riciclaggio
 realizzato, di regola, mediante l'acquisto di certificati di deposito
 bancari o l'apertura  di  libretti  di  deposito,  quindi  attraverso
 procedimenti  che  avrebbe  dovuto  garantire la "pulitura dal denaro
 sporco",  ma  anche  mediante  l'investimento  di  tale danaro in una
 s.r.l. partecipata dal D'Oriano (coimputato del Tedesco)  oppure  con
 l'acquisto  di  imbarcazioni  da  destinare,  quali beni strumentali,
 all'esercizio una specifica attivita' d'impresa.
   Sul punto non appaiono condivisibili le valutazioni dell'appellante
 circa le differenti concrete modalita' di  impiego  di  quel  danaro,
 diversita'  che  -  secondo  il p.m. - sarebbe indicativa di distinti
 programmi delittuosi: ed invero e' proprio la scelta fatta  dal  p.m.
 di  contestare,  con la seconda ordinanza, il reato di riciclaggio di
 cui all'art. 648-bis c.p. invece  che  quello  -  pure  astrattamente
 configurabile  -  di  impiego  in  attivita'  economiche di danaro di
 provenienza illecita di cui al sotto successivo art. 648-ter,  e'  un
 dato  sintomatico  della identita' del fine, quindi dell'unicita' del
 disegno criminoso cui poi riferire le singole  iniziative  delittuose
 ascritte al Tedesco.
   Riconosciuta  la  sussistenza  di una connessione per continuazione
 tra tali reati sembrerebbe corretta la decisione adottata  dal  primo
 giudice  a  norma dell'art. 297, comma 3, c.p.p., perche' in effetti,
 al momento della emissione nei confronti del  Tedesco  della  seconda
 ordinanza  cautelare, non era ancora intervenuto il rinvio a giudizio
 per reati oggetto della  prima  ordinanza:  con  la  conseguenza  che
 dovrebbe  trovare  l'applicazione  la  disciplina  dettata  nel primo
 periodo del citato comma 3 che prevede il  principio  dell'automatica
 retrodatazione  della  decorrenza  del termine di durata della misura
 cautelare disposta con il secondo provvedimento.
   Una piu' attenta esegesi dell'art.  297,  comma  3,  c.p.p.  mette,
 pero',  in  luce  delle  palesi  incongruenze,  idonee  a determinare
 ingiustificate  disparita'  di  trattamento  in  situazioni  analoghe
 ovvero  a provocare una uniformita' applicativa in casi profondamente
 diversi: norma, quindi, di cui e' fondato ritenere la  illegittimita'
 perche'  in  contrasto  con  il principio di ragionevolezza garantito
 dall'art. 3 della Carta costituzionale.
   Il comma 3, dell'art. 297 del codice di rito disciplina -  come  e'
 noto  - l'istituto cosi' detto della "contestazione a catena" o della
 "contestazione  a  grappolo",  prevedendo  una  deroga  alla   regola
 generale,  vigente in materia cautelare, dell'autonoma decorrenza dei
 termini di durata delle misure disposte con  distinti  provvedimenti:
 norma  derogatrice  e con la quale sia voluto contrastare il fenomeno
 dell'inammissibile   prolungamento   dell'efficacia   delle    misure
 cautelari   dovuto  all'artificioso  frazionamento  nel  tempo  degli
 interventi in relazione a fatti-reato diversi ma collegati  tra  loro
 e,  soprattutto, gia' accertati nei loro elementi costitutivi fin dal
 momento dell'emissione della prima  ordinanza.  La  previsione  della
 retrodatazione  della  decorrenza della durata della misura cautelare
 applicata con un provvedimento di cui sia stata ritardata l'adozione,
 e che invece poteva essere messo fin  dall'epoca  in  cui  era  stata
 adottata  una  precedente  ordinanza  per  fatti  "connessi",  ha  la
 finalita' di porre rimedio a possibili abusi -  volontari  o  meno  -
 dell'autorita' giudiziaria.
    Tale articolo e' stato modificato dall'art. 12 della legge n.  332
 del  1995  con  l'introduzione  di  una  disposizione  che  distingue
 nettamente l'ipotesi in cui le due - o  piu'  -  ordinanze  cautelari
 (concernenti lo stesso fatto o fatti connessi ai sensi dell'art.  12,
 comma  1,  lett. b) e c), limitatamente ai casi di reati connessi per
 eseguirne  altri)  siano  state  emesse,  nei  confronti della stessa
 persona, tutte nella fase delle indagini, dall'ipotesi in cui  per  i
 reati  oggetto della prima ordinanza sia gia' intervenuto il rinvio a
 giudizio: nel primo  caso  e'  prevista  l'operativita'  senza  alcun
 correttivo  o  riserva,  del  principio  della retrodatazione, con la
 conseguenza che il termine di durata della misura  applicata  con  la
 successiva  ordinanza  decorre  dalla  data  di esecuzione o notifica
 della prima ordinanza; nel secondo caso,  invece,  la  retrodatazione
 non  si  verifica  laddove risulti che i fatti oggetto dell'ordinanza
 posteriore non erano desumibili dagli atti  del  processo  prima  del
 rinvio a giudizio per i reati di cui all'ordinanza anteriore.
   E'  pacifico  che  l'intendimento  della novella del 1995 sia stato
 quello di garantire le ragioni dell'indagato, nella  convinzione  che
 per assicurare una maggiore e piu' efficace tutela della sua liberta'
 personale  fosse  necessario  stabilire in maniera precisa gli ambiti
 applicativi della disciplina codicistica della durata della  custodia
 cautelare:  al  fine  cosi'  di  evitare che, con regole dai contorni
 discutibili   ed   indeterminati,    potessero    rimanere    margini
 inammissibili  forme  di  frazionamento  nel  tempo  degli interventi
 cautelari. Ci si sarebbe pero' attesi  che  il  legislatore,  facendo
 "tesoro"  dei  piu'  attenti  ed  accreditati  orientamenti esegetici
 offerti dalla giurisprudenza di legittimita' (reiterati  anche  nelle
 piu'  recenti  pronunce della suprema Corte: si vedano, tra le altre,
 Cass., sez. I, 23 marzo 1996, Grimaldi; Cass.,  sez.  VI,  29  agosto
 1996,  Tommaso; Cass., sez. V, 25 marzo 1997, Foria; Cass., sez. I, 7
 maggio 1997, Schettini; Cass., sez. VI, 14 maggio 1997,  Ametrano;  e
 Cass.,  sez.  V,  24  luglio 1997, Burgio), valorizzasse il principio
 della esistenza e "rilevabilita'" degli  indizi  posti  a  fondamento
 della successiva ordinanza cautelare gia' all'epoca della richiesta o
 della  emissione  della  precedente  ordinanza, l'unico principio che
 puo' legittimare  una  deroga  cosi'  pregnante  alla  citata  regola
 generale  della autonoma decorrenza di titoli cautelari: poiche' solo
 se quegli indizi erano gia' rilevabili -  e  cioe'  solo  gli  stessi
 erano  gia'  a  disposizione  dell'autorita'  giudiziaria  -  si puo'
 sostenere che nei confronti dell'indagato doveva  essere  emesso  fin
 dall'origine  un  unico  provvedimento  cautelare  e che, percio', la
 decorrenza del termine di durata  di  una  misura  disposta  con  una
 successiva   ordinanza  deve  essere  retrodatata  al  momento  della
 esecuzione o della notificazione della prima.
   Il legislatore del 1995, invece, distinguendo i  due  casi  innanzi
 delineati  (corrispondenti  alle  ipotesi  rispettivamente  descritte
 nella prima e nella seconda parte del piu' volte citato comma  3)  ha
 adottato  una  soluzione  poco comprensibile: per un verso escludendo
 qualsivoglia valore del criterio della "rilevabilita'" quando le  due
 o  piu'  ordinanze  vengono emesse, per fatti "connessi", tutte nella
 fase delle indagini preliminari o, comunque, prima che per taluni dei
 delitti contestati sia intervenuto il rinvio a  giudizio;  per  altro
 verso  ammettendo  la  operativita' di quello stesso criterio laddove
 per i reati oggetto della prima ordinanza sia appunto intervenuto  il
 rinvio  a  giudizio.  Aspetti questi che appaiono entrambi carenti di
 quella  ragionevolezza  che  deve  assistere  tutte  le  scelte   del
 legislatore,  anche  se  di  natura  ed  a  contenuto tendenzialmente
 discrezionale.
   Ed  infatti  la  disciplina  contenuta  nel primo periodo dell'art.
 297, comma 3, negando in assoluto la  possibilita'  di  una  verifica
 dell'esistenza di una tempestiva iniziativa ovvero di una censurabile
 inerzia  o di un colpevole ritardo del p.m. nel richiedere l'adozione
 di una misura cautelare per fatti diversi "connessi"  a  quelli  gia'
 contestati  con  una precedente ordinanza, finisce per fondare la sua
 ratio - come acutamente sottolineato da alcuni commentatori - su  una
 inammissibile  presunzione  di  indebito prolungamento della custodia
 cautelare. Di talche' retrodatare, sempre e in ogni caso, al  momento
 della esecuzione o della notifica della prima ordinanza la decorrenza
 del  termine  di  custodia cautelare per reati "connessi", oggetto di
 una successiva ordinanza, determina una  inaccettabile  parificazione
 tra  situazioni  profondamente  differenti: quelli in cui il p.m. pur
 disponendo fin dall'origine negli elementi  per  contestare  tutti  i
 reati   -    tra  loro  "connessi"  nel  senso  innanzi  precisato  -
 configurabili a carico di uno stesso indagato,  abbia  "diluito"  nel
 tempo i vari interventi cautelari, rispetto alla situazione  del p.m.
 che  abbia scoperto nuovi elementi indiziari concernenti taluni reati
 in epoca sicuramente successiva  alla presentazione  della  richiesta
 di  emissione della precedente ordinanza cautelare, avente ad oggetto
 altri reati "connessi".
   Trasferendo il risultato di tali considerazioni il caso di specie -
 anche allo scopo di  evidenziare  la  rilevanza  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale  che  il  tribunale  intende sollevare -
 appare chiaro quanto inique siano le conseguenze  di  una  pedissequa
 applicazione  della  regola in esame: posto che, come si evince dagli
 atti a disposizione, il 14  giugno  1997  il  p.m.  si  determino'  a
 chiedere  al  g.i.p.  l'applicazione  nei confronti del Tedesco della
 misura della custodia cautelare in carcere (applicazione poi disposta
 con la ordinanza emessa il 28 giugno 1997) sulla base  dei  risultati
 di  una serie di indagini cui lo stesso p.m. ha dimostrato aver avuto
 contezza solo nel maggio dello  stesso  anno,  quindi  posteriormente
 alla  data  di  richiesta  (28  marzo  1997),  ed  anche di quella di
 emissione (15 aprile 1997), della prima ordinanza cautelare attinente
 reati riconosciuti connessi per continuazione agli altri. Retrodatare
 la  decorrenza  della   durata   della   seconda   misura   cautelare
 "automaticamente"  e  senza tenere in alcuna considerazione l'innanzi
 tratteggiata    ricostruzione    cronologica    (sintomatica    della
 tempestivita'  e  correttezza delle scelte fatte dal p.m.), significa
 parificare ingiustificatamente tale situazione a quella - ipotetica -
 del p.m. che, avendo fin dall'inizio tutti gli elementi  per  operare
 una  contestazione  unitaria  di tutti i reati, avesse frazionato nel
 tempo gli interventi cautelari. Retrodatazione che, peraltro, finisce
 per sacrificare in maniera inammissibile le esigenze cautelari che si
 e' reputato di soddisfare con l'emissione della seconda ordinanza, la
 cui efficacia viene ex lege  limitata  nel  tempo  e  persino  negata
 laddove  -  per ipotesi - sia gia' decorso il termine di durata della
 misura disposta con il precedente provvedimento cautelare.
   Altrettanto irragionevole e' la disciplina  contenuta  nel  secondo
 periodo  dell'art.  297, comma 3, li' dove la deroga all'operativita'
 del principio della  retrodatazione  e'  stata  ancorata  al  "limite
 oggettivo  ed  ineludibile"  dell'intervenuto rinvio a giudizio per i
 reati "connessi" di cui alla  prima  ordinanza  cautelare.  Soluzione
 questa che, ispirata si' al tentativo di fissare il riferimento ad un
 ben   preciso   momento   del   procedimento,   appare   invero  poco
 comprensibile:  tanto piu' ove si rammenti che il rinvio a giudizio -
 facendo decorrere per i relativi reati un nuovo termine di "fase"  di
 durata della custodia cautelare, ex art. 303, primo comma, lette. b),
 c.p.p.  -  rende  meno  sentita  l'esigenza  di  impedire artificiosi
 prolungamenti della durata di efficacia delle misure cautelari dovuti
 all'emissione ritardata di nuove ordinanze. Sicche' non si  capirebbe
 perche',   intervenuto  il  rinvio  a  giudizio,  venga  riconosciuto
 comunque al giudice la facolta' di verificare  la  desumibilita'  dei
 "nuovi"  fatti-reato dagli atti gia' acquisiti prima di quel momento.
 Senza dire - e questa appare riflessione dagli effetti decisivi - che
 e' ben possibile che la misura disposta con riferimento ai reati  per
 i  quali viene emesso il decreto di rinvio a giudizio, sia stata gia'
 revocata o abbia perso altrimenti efficacia: come  si  e'  verificato
 nel  caso del Tedesco il quale, alla data di svolgimento dell'udienza
 preliminare (9 dicembre 1997, era stato gia'  formalmente  scarcerato
 con   riferimento   alle   imputazioni  contestategli  con  il  primo
 provvedimento coercitivo del 15  aprile  1997  che,  eseguito  il  29
 aprile 1997, aveva perso efficacia il 29 ottobre 1997.
   A  cio'  si  aggiunga che il discrimine individuato dal legislatore
 con riferimento al momento del rinvio a giudizio invece  che  fornire
 maggiori  garanzie all'imputato, comporta maggiori incertezze (quindi
 possibili abusi, consapevoli o meno) in quanto correlato alla  scelta
 del  p.m.,  sostanzialmente  insindacabile,  di  chiedere il rinvio a
 giudizio per alcuni dei piu' reati "connessi". Cosi', ad esempio, nel
 caso di specie il p.m. avrebbe  potuto  "aggirare"  l'ostacolo  posto
 dall'art.  297,  comma  3, chiedendo e ottenendo il rinvio a giudizio
 del Tedesco per  i  reati  allo  stesso  contestati  con  l'ordinanza
 cautelare  del  15  aprile 1997, prima che emergessero i gravi indizi
 per gli altri reati  "connessi",  e  quindi  prima  di  chiedere  nei
 riguardi  del medesimo imputato l'immissione di una seconda ordinanza
 cautelare che avrebbe avuto una autonoma decorrenza  del  termine  di
 efficacia:   situazione questa tutt'altro che ipotetica, tenuto conto
 che nella fattispecie la seconda ordinanza  del  28  giugno  1997  e'
 stata  adottata nei confronti del solo Tedesco e di un suo coindagato
 sulla base dei risultati di indagine emersi in epoca successiva al 15
 aprile 1997 in altro procedimento (il n. 1093/97 rgnr) e  poi  -  con
 apprezzabile  correttezza - fatti confluire dal p.m. nel procedimento
 principale recante il n. 2844/96.
   In  tale  ottica  sembra  lecito  dubitare  della  rispondenza   ai
 parametri dell'art.3 della Carta costituzionale della norma contenuta
 nell'art.    297, comma 3, c.c.p., ed in specie della parte finale di
 tale  norma  in  cui  e'  prevista  una  deroga  al  principio  della
 automatica  retrodatazione per le "ordinanze per fatti non desumibili
 dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto  con  il
 quale   sussiste  connessione":    laddove  sarebbe  piu'  plausibile
 ammettere la inoperativita' di quel principio di  retrodatazione  per
 le  "le  ordinanze  per  fatti  non desumibili dagli atti prima della
 presentazione della richiesta di applicazione di una misura cautelare
 disposta per il fatto con il quale sussiste connessione".
   E' appena il caso di aggiungere che e' ben nota  a  questo  giudice
 l'esistenza  di  una  precedente  sentenza  (la n. 89 del 25-28 marzo
 1996) con la quale la Corte  costituzionale  ha  gia'  dichiarato  la
 infondatezza di una analoga questione di legittimita' costituzionale.
 Cio'  pero'  non  sembra  possa  ostacolare  una nuova verifica della
 fondatezza   della   esposta   questione  sia  perche'  la  struttura
 motivazionale  di  quella  sentenza,  pur  partendo  da   validissime
 premesse  di  carattere  generale,  giunge  -  come e' stato posto in
 risalto anche da autorevoli commentatori - a conclusioni davvero poco
 convincenti; sia perche'  nella  presente  ordinanza  sono  contenuti
 spunti di valutazione (come quelli concernenti il richiamo al momento
 del rinvio a giudizio) assenti nel provvedimento di remissione con il
 quale venne a suo tempo sollecitato quell'intervento della Consulta.
   Non  va  infine  trascurato  che  questa sentenza e' stata adottata
 dalla  Corte  costituzionale  quasi  due  anni  fa,  sicche'  sarebbe
 opportuna  una  rivisitazione  della  materia  pure  alla  luce delle
 argomentazioni contenute nelle pronunce nel  frattempo  emesse  dalla
 Corte  di  cassazione.    E',  ad  esempio, significativa la sentenza
 adottata delle sezioni unite il 25 giugno  1997  nel  processo  Atene
 (segnalata  anche  nell'odierno  appello)  nella quale, risolvendo il
 conflitto giurisprudenziale circa l'applicabilita'  della  disciplina
 della  "contestazione a catena" nel caso di reati "connessi" scoperti
 in procedimenti diversi, pur con affermazioni di  natura  incidentale
 sono  stati  formulati  principi  di diritto che in sostanza sembrano
 confermare  la  validita'  delle  considerazioni  sopra  esposte.  In
 particolare  la  suprema  Corte scegliendo una impostazione esegetica
 tesa alla individuazione  della  ratio  dell'intera  disposizione  in
 esame,  ha  sostenuto  che "la desumibilita' dagli atti espressamente
 richiamata nel secondo periodo del comma  3,  (costituisce)  criterio
 applicativo  dell'intera  previsione  del comma 3, dell'art.  297, ad
 essa conferendo razionalita' e certezza, e nel  contempo  costituisce
 garanzia   verso   applicazioni   improntate   ad   un  irragionevole
 automatismo"; ed ancora come "la desumibilita' degli  atti  (...)  ai
 fini  dell'applicazione  del  disposto  di cui al secondo periodo del
 comma 3, deve farsi risalire ad epoca anteriore al "disposto"  rinvio
 a  giudizio - che segna il termine massimo di fase ai sensi dell'art.
 303, comma 1, lett. b) - cosi' la desumibilita' dagli atti di cui  al
 primo  periodo  della  citata  norma  deve  essere  riferita ad epoca
 anteriore alla emissione della prima ordinanza cautelare.  Altrimenti
 verrebbe   meno  la  ratio  dell'intera  disposizione,  ed  il  tutto
 risulterebbe davvero affidato  ad  un  paradossale  ed  irragionevole
 automatismo. D'altra parte, e sempre in linea con il dato letterale e
 con   il  significato  complessivo  della  norma  rispetto  alla  sua
 finalita',  appare  evidente  che  le  situazioni  apprezzabili  come
 presupposti  per  l'emissione  delle  successive  ordinanze,  la  cui
 efficacia va retrodatata, debbano avere caratteristiche e consistenza
 tali da legittimare l'adozione della misura cautelare sin  dall'epoca
 della  prima  ordinanza.  Non  e' sufficiente, pertanto, che, entro i
 limiti temporali di cui al primo e al secondo periodo  del  comma  3,
 dell'art. 297, sia stata acquisita risulti dagli atti la mera notizia
 del fatto-reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro
 legittimante   l'adozione   della  misura  cautelare  sin  dall'epoca
 dell'emissione della prima ordinanze, ovvero dall'epoca del rinvio  a
 giudizio (...)".
   La   questione   di   legittimita'  costituzionale  e'  chiaramente
 rilevante nel caso di specie poiche'  dal  riconoscimento  della  sua
 fondatezza  deriverebbe l'accoglimento dell'appello proposto dal p.m.
 e, quindi, il ripristino della misura  della  custodia  cautelare  in
 carcere nei confronti del Tedesco.